La scommessa generazionale in azienda

Age Diversity Management: La scommessa generazionale in azienda

 

Come sappiamo, le aziende debbono confrontarsi con il fenomeno particolare della compresenza di quattro generazioni attive. Un tema non certo recente, perché data da diversi anni. Eppure, forse anche a causa degli eventi del 2020 e dell’impatto che questi hanno generato sulle persone, il tema è di grande attualità.

Ma vediamo di cosa si tratta.

Innanzitutto – senza avere pretese di generalizzazioni, e posto che ci possono essere classificazioni con interpretazioni leggermente differenti l’una dall’altra – può essere utile una visione di sintesi.

Baby Boomers            nati tra il 1946 e il 1965 (55 – 65 anni)

Generazione X            nati tra il 1966 e il 1985 (35 – 54 anni)

Generazione Y            nati tra il 1986 e il 1995 (25 – 34 anni)

Generazione Z            nati tra il 1996 e il 2005 (15 – 25 anni).

Baby Boomers
Vengono chiamati così poiché sono nati in un momento di esplosione delle nascite. Si tratta di una generazione che ha vissuto il ’68, i grandi movimenti sociali e di pensiero degli anni ’70. Hanno una cultura trasformativa e generativa, poiché da giovani credevano che il futuro sarebbe stato migliore del presente e sentivano di contribuire a crearlo. Hanno una forte spinta verso la partecipazione, la realizzazione di qualcosa che dia senso alla loro carriera, desiderano sapere che lasciano una loro impronta, un’eredità “utile” alla comunità.

Generazione X
Più flessibile, sensibile ai cambiamenti, con una mentalità influenzata dall’avvento della globalizzazione. Sono ambiziosi, hanno una forte tensione verso il proprio sviluppo professionale e il raggiungimento degli obiettivi di carriera che si sono prefissati, altrimenti sentono il peso del tempo che passa, entrano in frustrazione e si guardano intorno per capire dove possono collocarsi. Superati i 45 anni, cominciano a temere di essere fuori mercato. Sentono il bisogno di coaching come acceleratore del proprio sviluppo.

Generazione Y
Più comunemente definita “Millennials”. Concentrati sul “qui ed ora”, un po’ inquieti e disorientati, hanno bisogno di riappropriarsi di un futuro che pensano sia stato loro “scippato”. In particolare i più giovani sentono di voler apportare dei cambiamenti necessari a migliorare la comunità e il mondo. Ne sono dei segnali la loro attenzione ai temi ecologici e a quelli della corretta nutrizione, il loro stile piuttosto minimalista, il loro ritorno ai valori familiari, talvolta anche in controtendenza rispetto a certi modelli “alternativi” di alcuni genitori. Sentono anch’essi il bisogno di coaching, e anche di mentoring.

Generazione Z
Amano essere autodidatti e liberi. Sono focalizzati sul futuro, pur percepito come un’incognita, e sulla dimensione social e digital. Si sentono cittadini del mondo, sono informali e veloci. Poiché sentono la mancanza di punti di riferimento, li cercano nella rete partecipando a community, dove lo scambio fra pari è l’elemento principale. Hanno un approccio “mobile first”: considerano il proprio device tecnologico un loro grande punto di riferimento: per loro il mondo è soprattutto lì. La voce “pensione” è assente dalle loro categorie mentali.

Guardando questa “fotografia”, l’impressione che si ha è che ogni generazione rappresenti un mondo e, nel vederle tutte insieme, emerge una grande complessità, una condizione che ci è ormai molto familiare. L’altra sensazione è quella di una sorta di modifica cromosomica del mondo del lavoro avvenuta nell’arco di circa 40 anni. La prima generazione è relativamente statica, fidelizzata, identificata con il proprio ruolo, con l’azienda e con il proprio territorio. L’ultima generazione è mobile, non fidelizzabile, sente di doversi spostare da un paese all’altro, da un continente all’altro, è relativamente identificata con le sue community, i network di colleghi e amici. La prima è solida, l’ultima è liquida, come direbbe Zygmunt Bauman.

E’ la fotografia, anzi, il film dell’evoluzione dei nostri tempi: una destrutturazione progressiva dei contesti aziendali e al tempo stesso una loro estensione nella rete. Una crescente perdita di punti di riferimento, soprattutto se si pensa al futuro. I legami tra la persona e l’azienda sono sempre più labili. C’è una minore dipendenza degli individui da qualcosa o da qualcuno. Un tempo, ricevere una promozione da parte di un capo era una grande emozione, nella certezza che si stava costruendo qualcosa di importante. Oggi di capi ce n’è sempre meno e il rapporto di lavoro somiglia sempre più a una libera professione. L’incertezza domina, ma aumentano la flessibilità e l’autoimprenditorialità.

Un altro aspetto positivo è che i giovani sanno che debbono stimolare le proprie idee, perché in base ad esse possono costruire il loro ambito di lavoro, quanto meno per il prossimo futuro. Poi domani si vedrà, pronti a intercettare un’altra opportunità. I “super senior” stanno a guardare un po’ disorientati e a volte scandalizzati, scuotono la testa, talvolta un po’ nostalgicamente rispetto a un passato dove c’erano valori “migliori”, intuendo che forse ci sarebbe bisogno di loro ma non sanno come fare e soprattutto chi o cosa li possa valorizzare.

Certo è che questa diversità, piuttosto che vederla come un tema potenzialmente carico di conflitti, bisogna gestirla e soprattutto valorizzarla. L’integrazione fra le varie generazioni rappresenta un vero e proprio patrimonio che il mondo del lavoro fa fatica a far emergere.

Qui entra in gioco il tema del Diversity Management. Ad esempio, perché lasciar andare in pensione una generazione che può detenere un interessante know how senza dare prima la possibilità di riversarlo a chi resta? Perché non organizzare delle mini survey per rilevare i bisogni, le aspettative e le proposte delle varie generazioni e quelli reciproci? Come mai non si affiancano i giovani talenti con coach o con mentor esperti, o promuovendo il reverse mentoring, così da farli crescere meglio e più rapidamente? Perché non integrare le varie generazioni facendole dialogare e collaborare? Come fare in modo che ognuno non veda il proprio ruolo come il centro del mondo, non si lavori a compartimenti stagni ma si comunichi efficacemente a livello intergenerazionale? Ecco che la gestione della Diversity generazionale non può che essere Inclusion.

Ci sono dei punti saldi da cui può scaturire un nuovo mindset:

    • sviluppare la cultura dell’inclusione, dell’ascolto dell’altro e di ciascuna generazione come opportunità di crescita
    • ridurre gap culturali, disallineamenti e pregiudizi, derivanti da differenti prospettive di vita e di lavoro
    • creare alleanza professionale e reciproco apprendimento rispetto a modalità e strumenti di lavoro differenti
    • stimolare la solidarietà, il senso del “Noi” e far emergere i valori comuni
    • migliorare le relazioni interpersonali, di gruppo e interfunzionali, il clima e l’ingaggio
    • creare una cultura del coaching e del mentoring
    • dare visibilità e voce alle persone, al racconto e all’ascolto delle loro storie
    • stimolare la creazione di progetti innovativi e condividere il know how
    • far emergere best practices perché diventino prassi condivise
    • celebrare i casi di successo perché creino una contaminazione positiva.

La maggior parte di queste prassi possono essere valide anche per altri ambiti della Diversity. Ad esempio quella di genere, o fra persone provenienti da differenti aree geografiche, oppure nel caso di quelle differenze culturali proprie di organizzazioni che hanno gestito fusioni e acquisizioni, dove permane per molto tempo la percezione di avere una o più aziende nell’azienda: mindset, stili, linguaggi, modi di lavorare, che richiedono un impegno comune per attenuare il “lavoro per silos”, generare quel senso del “Noi” tanto importante per la dimensione organizzativa e creare maggiori sinergie.

Si tratta, non solo di azioni strategiche, ma anche e soprattutto di tante piccole azioni quotidiane, come fare attività in comune, dare supporto per risolvere problemi, informare con una comunicazione circolare, creare appositi spazi per dialogare, dare e ricevere opportunità di apprendimento, offrire occasioni di visibilità, …

Un impegno importante a discapito dell’efficienza e della produttività? Meno di quanto sembri. Piuttosto, un investimento che può dare un risultato molto elevato, soprattutto in questo momento di grande trasformazione e di distanza forzata, in cui il senso dell’unione si rivelerà strategico. I team possono andare lontano, ma la vera trasformazione la fa l’azienda nella sua interezza. Se ben gestito, è un investimento con una fase iniziale complessa ma poi la strada è in discesa perché le persone, percepito il beneficio diffuso, saranno le prime ad alimentarlo.

Buon anno, e che la gestione efficace della diversità, l’integrazione, la vera collaborazione possano essere valori agiti nel quotidiano delle persone.

Scritto da:
Rossella Martelloni
Senior Consultant di Hermes Consulting